"BSC" - Associazione per Bologna: SANITÀ & CONOSCENZA O.D.V.

CAUTERIUM

Conoscenza, temi e problemi in materia di:
salute sanità e qualità della vita.
Periodico di interesse medico sanitario e sociale.

 

L'ARTE DI VIVERE
conoscere, prevenire e curare le malattie neuro-degenerative

a cura di:
Lucio Pardo, Luigi Pagnoni e Carolina Delburgo

Edizioni: Collana Cauterium N.4

Introduzione di Patrizio Bianchi


• Locandine
• Abstract
• Giornali

 



INVITO AL CONVEGNO
in onore del 103° compleanno di
RITA LEVI MONTALCINI

CRESCERE, CONOSCERE, PREVENIRE:
dal laboratorio alla prevenzione delle malattie neuro-degenerative

AULA POLIVALENTE DELL'ASSEMBLEA REGIONALE
V.LE A. MORO 50, BOLOGNA

LUNEDI 23 APRILE 2012, ORE 14,15


 

 

 


 

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ABSTRACT

1. Prof. P. Calissano RITA LEVI MONTALCINI ED UN FORMIDABILE TRIO.
(Vedi R. L. Montalcini - R. Dulbecco - S. Luria, un trio formidabile su Scienziati d'Italia a cura di M. Cattaneo, codice editore Torino 2011.)

2. Prof. L. Calzà N. G. F. LO STATO DELL'ARTE
Centro di Ricerca Interdipartimentale per la Ricerca Industriale - Scienze della Vita e Tecnologie per la Salute - Università di Bologna

NERVE GROWTH FACTOR: LO STATO DELL'ARTE

Nel 1986 il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia viene attribuito a Stanley Cohen e Rita Levi Montalcini "for their discoveries of growth factors". In particolare il riconoscimento premia il lavoro degli anni '50 di Rita Levi Montalcini che portarono alla scoperta del Nerve Growth Factor (NGF). Come si legge nelle motivazioni del premio, si tratta di:
"discoveries which are of fundamental importance for our understanding of the mechanisms which regulate cell and organ growth,..... As a direct consequence we may increase our understanding of many disease states such as developmental malformations, degenerative changes in senile dementia.....".
Questa scoperta apre una nuova era nella biologia dello sviluppo, dimostrando meccanismi di regolazione dello sviluppo ad opera di molecole solubili mai prima dimostrati. Apre anche l'era della moderna neurobiologia, cominciando a delineare le basi di meccanismi di sopravvivenza dei neuroni strettamente legati alla loro attività funzionale.
A distanza di oltre 60 anni dalla sua scoperta, e di quasi 30 anni dal premio Nobel, NGF è una molecola che ancora riserva sorprese per il suo ruolo in molti processi fisiologici e patologici, per la varietà dei tessuti target, per le implicazioni in patologie che riguardano il sistema nervoso, ma anche quello endocrino e immunitario, la cute e le mucose. Ma NGF è stata anche la molecola "pilota" che ha consentito la scoperta di una classe di molecole per molto tempo definite NGF-like, dei rispettivi recettori e delle cascate molecolare che regolano processi cellulari sia nel corso dello sviluppo che nella vita adulta.
Nel corso della presentazione saranno ricordate alcune delle più recenti scoperte relative ad NGF.

3. Prof. R. Bartesaghi.
Professore Associato di Fisiologia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Bologna. Il suo interesse scientifico è rivolto allo studio della plasticità cerebrale in condizioni fisiologiche e patologiche. Negli ultimi anni si è occupata in modo particolare dei meccanismi alla base del ritardo mentale nella sindrome di Down , in vista di possibili approcci terapeutici.

È POSSIBILE RIPRISTINARE LO SVILUPPO CEREBRALE NELLA
SINDROME DI DOWN?

La sindrome di Down (SD) è una patologia genetica causata dalla triplicazione del cromosoma 21. I soggetti con SD sono caratterizzati, oltre che da vari problemi medici, da un grave ritardo mentale, l'aspetto più invalidante della patologia. I meccanismi alla base del ritardo mentale sono ancora largamente sconosciuti e non ci sono, al momento, terapie appropriate. Per facilitare lo studio dei meccanismi alla base delle anomalie cerebrali nella SD sono stati creati modelli di topo che presentano molte analogie con la patologia umana, Evidenze crescenti in modelli di topo e in individui con SD suggeriscono che un diffuso e grave difetto di neurogenesi sia alla base delle alterazioni dello sviluppo cerebrale e della disabilità mentale. Questo prospetta la possibilità che terapie mirate a ripristinare la neurogenesi siano in grado di correggere i difetti cognitivi della SD. Sulla base di evidenze che i farmaci antidepressivi sono in grado di aumentare la neurogenesi nel cervello normale, abbiamo cercato di stabilire se sia possibile migliorare/ripristinare la neurogenesi nella SD con un farmaco antidepressivo. Abbiamo utilizzato il topo Ts65Dn, un modello di SD che presenta caratteristiche molto simili alla patologia umana. Abbiamo trattato topi Ts65Dn neonati con fluoxetina, un farmaco antidepressivo di largo uso, ed abbiamo esaminato gli effetti del trattamento sulla neurogenesi e sul comportamento. I risultati mostrano che il trattamento con fluoxetina ripristina completamente la neurogenesi in varie regioni cerebrali, incluso l'ippocampo, una regione cerebrale che svolge un ruolo critico nella memoria a lungo termine. L'analisi del comportamento ha mostrato che i topi Ts65Dn, non trattati, presentano gravi difetti di memoria ippocampo-dipendente e che il trattamento determina il completo recupero di questa funzione. I nostri risultati mostrano che un farmaco antidepressivo prescritto ad adulti e perfino ad adolescenti è in grado di ripristinare le alterazioni dello sviluppo cerebrale e l'apprendimento in un modello murino di SD. Questi risultati potrebbero aprire la strada a trials clinici, mirati a stabilire se questo tipo di13 trattamento sia in grado di migliorarne le capacità cognitive nei bambini con SD.

4. Dott. Elisabetta Ciani

Ricercatore confermato presso la facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Bologna, da anni si dedica allo studio di malattie neurologiche infantili di origine genetica, caratterizzate da un alterato sviluppo del sistema nervoso centrale quali la sindrome di Down e la sindrome di Rett.

NUOVE PROSPETTIVE PER LO STUDIO DELLA VARIANTE CDKL5
DELLA SINDROME DI RETT

La sindrome di Rett è una grave patologia neurologica, che colpisce prevalentemente soggetti di sesso femminile. La malattia è congenita e si manifesta, in genere, durante il secondo anno di vita. Colpisce circa una persona su 10.000. La sindrome é associata a ritardo nell'acquisizione del linguaggio e della coordinazione motoria e a grave ritardo mentale. Attraverso la ricerca genetica è stato possibile scoprire che molti casi di sindrome di Rett sono causati da mutazioni nel gene MeCP2. Tuttavia, non tutti i pazienti con sindrome di Rett presentano tali mutazioni e recentemente si è scoperto che mutazioni di un altro gene chiamato CDKL5 sono alla base di una variante della sindrome di Rett, caratterizzata da epilessia precoce. CDKL5 sembra partecipare ad alcune funzioni esercitate da MeCP2, il che spiegherebbe, in parte, perché i due geni possono essere responsabili della stessa malattia. Tuttavia, mentre si conoscono diversi aspetti della funzione di MeCP2, quasi nulla si conosce del ruolo di CDKL5 nello sviluppo del sistema nervoso e nell'evoluzione della sindrome di Rett. Per rispondere a questo quesito abbiamo costituito un consorzio di quattro gruppi di ricerca, ognuno con competenze specifiche nel settore delle neuroscienze, con l'obiettivo di identificare le funzioni di CDKL5. In particolare ci proponiamo di identificare, in sistemi cellulari neuronali appropriati, i geni e le proteine che sono regolati da CDKL5 e di generare un modello di topo che presenti gli aspetti fenotipici di questa variante della sindrome di Rett. I risultati ottenuti permetteranno di identificare i geni o le proteine che potranno essere bersaglio di possibili farmaci, mirati a tentare di rallentare o curare la malattia stessa.

5. Dott. Barbara Monti

Ricercatore confermato presso il Dipartimento di Biologia Evoluzionistica Sperimentale, Facoltà di Scienza MM.FF.NN. dell'Università di Bologna. Nella sua attività di ricerca si occupa principalmente dello studio delle interazioni tra cellule e neuroni nella neuro degenerazione e nella neuro protezione.

INTERAZIONI MICROGLIA - NEURONI NELLA
SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA

La sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è una malattia dei motoneuroni, che insorge nell'adulto ed è letale. Circa il 10% della SLA è familiare, mentre il restante 90% può essere classificato come malattia sporadica, ma queste forme sono clinicamente indistinguibili. L'eziologia della SLA rimane ad oggi sconosciuta, tuttavia sono stati identificati 13 geni e loci coinvolti nella SLA. Il primo gene identificato come causa di SLA è la Cu/Zn superossido-dismutasi 1 (SOD1), che rappresenta circa il 15% dei casi di SLA familiare (Rosen et al, Nature, 1993, 362, 59). I meccanismi con cui mutazioni in questo enzima presente in tutte le cellule de13terminano la selettiva degenerazione dei motoneuroni, tuttavia, sono ancora sconosciuti. Di recente, è stato proposto un meccanismo "non-cell autonomous", cioè cellule diverse dai neuroni, come le cellule gliali, astrociti e soprattutto microglia, intervengono nella morte dei motoneuroni stessi (Boillée et al, Science 2006, 312, 1389; Neuron 2006, 5122, 39; Ilieva et al, Cell J Biol 2009, 187, 761). Considerando che fisiologicamente la microglia gioca un ruolo neurotrofico e neuroprotettivo essenziale che cambia con l'infiammazione (Polazzi & Monti, Prog Neurobiol 2010, 92, 293), rimane da capire se nella SLA vi sia una perdita di funzione neuroprotettiva e/o un guadagno di tossicità della microglia verso i motoneuroni. In particolare, è essenziale il ruolo del rilascio microgliale di proteine che intervengono sia nella neuroprotezione che nella neurotossicità (Nagai et al, Nat Neurosci 2007, 10, 615). Recentemente, infatti, abbiamo dimostrato che la microglia in condizioni fisiologiche rilascia la SOD-1, che è neuroprotettiva, e che è questo rilascio è ridotto quando la SOD-1 presenta una delle mutazioni legate alla SLA (Polazzi et al., Neurosignals 2012, in stampa). La comprensione delle interazioni microglia-neuroni, con particolare riferimento alle molecole solubili coinvolte in questo dialogo, è fondamentale per capire i meccanismi di neuroprotezione/neurodegenerazione nella SLA, al fine di sviluppare nuove strategie terapeutiche per contrastare questa devastante neuropatologia.

6. Prof. E. Maestrini

Associato di Genetica presso il Dipartimento di Biologia Evoluzionistica Sperimentale. Università di Bologna.

LE BASI GENETICHE DELL'AUTISMO

Nel 1943 lo psichiatra Leo Kanner utilizzò il termine "autismo" per descrivere un complesso di sintomi presenti in un gruppo di bambini da lui osservati. Questi sintomi sono riassumibili in tre aspetti: a) un'alterata interazione sociale, b) difficoltà di comunicazione verbale e non verbale, c) comportamenti, interessi e attività ristretti, ripetitivi e/o stereotipati. Tali disturbi comportamentali sono riscontrabili fin dall'infanzia e perdurano per tutta la vita, anche se le caratteristiche assumono un'espressività variabile nel tempo. Fino a qualche tempo fa la risposta alla domanda "che cosa causa l'autismo?" sarebbe stata: "non ne abbiamo un'idea?". La ricerca sta cominciando a dare alcune risposte a questo enigma. Sappiamo innanzi tutto che non c'è una causa unica, come non c'e un unico tipo di autismo.
Fin dalla prima descrizione dell'autismo, Kanner aveva intuito che si trattava di una sindrome dovuta ad una condizione organica. Tuttavia, negli anni che seguirono si fece strada l'ipotesi che l'autismo potesse essere provocato da cause psicologiche: queste teorie si sono rivelate del tutto infondate. L'elevato tasso di ricorrenza familiare e gli studi sui gemelli hanno dimostrato l'importanza preponderante dei fattori genetici nell'eziologia di questo disturbo, anche se è stato chiaro fin da subito che questi sono molto complessi e che non esiste un unico "gene dell'autismo". Si ritiene infatti che siano moltissimi i geni coinvolti ed in molti casi non è sufficiente che uno solo di loro sia alterato per scatenare la malattia. Negli ultimi anni sono stati compiuti notevoli progressi nell'identificazione di alcuni di questi geni, scoperte che cominciano a fornire qualche indizio sui meccanismi molecolari che sono alla base dell'eziopatologia dell'autismo. Questi sono i primi tasselli di un complicato puzzle che sta cominciando a prendere forma, e la cui soluzione è oggigiorno una meta difficile ma non impossibile da raggiungere.

7. Prof. M. Marini

Associato di Biologia Applicata presso il Dipartimento di Istologia Embriologia e Biologia Applicata. Da tempo si occupa di stress cellulare , con particolare attenzione allo stress ossidativo e all'apoptosi, e di segnalazione mediata dalle specie radicaliche. Solo di recente ha iniziato a studiare alcune patologie del sistema nervoso.

TERAPIA DELL'ATASSIA DI FRIEDREICH

Marina Marini¹, Antonella Pini² e collaboratori
¹Dipartimento di Istologia, Embriologia e Biologia Applicata, Università di Bologna
²Dipartimento di Neuropsichiatria Infantile, IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna

L'atassia di Friedreich è la più frequente delle atassie ereditarie (è colpita una persona su 30-50000). È causata da una mutazione somatica recessiva che determina un grave deficit di una proteina che svolge un ruolo essenziale nella formazione e nel funzionamento dei mitocondri, le "centraline energetiche" della cellula. La patologia si manifesta in genere nella seconda decade di vita ed è gravemente invalidante, in quanto il paziente perde progressivamente il controllo motorio; molto spesso inoltre sopravvengono diabete e cardiomiopatia. Non è un caso che gli organi più colpiti siano quelli le cui cellule richiedono maggiori quantità di energia e presentano una capacità più ridotta di rigenerarsi. Infatti mitocondri carenti non significano solo scarsità di energia, ma anche stress ossidativo, in grado di portare le cellule a morire per apoptosi.
Da tempo nel nostro laboratorio studiamo questi processi su cellule normali; abbiamo colto l'occasione di applicare le nostre conoscenze allo studio dell'Atassia di Friedriech grazie a un finanziamento ottenuto dall'associazione di pazienti AISA. Abbiamo così studiato un piccolissimo gruppo di pazienti, valutando gli effetti di un analogo naturale della vitamina E, il tocotrienolo, che si ottiene da fonti vegetali, su un ampio numero di parametri biochimici di stress ossidativo, alcuni dei quali mai valutati prima d'ora in questa patologia. Tali marcatori mostravano chiare alterazioni nei pazienti, nonostante essi assumessero la terapia correntemente prescritta. Tuttavia, dopo solo due mesi di trattamento, la maggior parte di questi parametri tendeva a normalizzarsi.
Naturalmente un periodo di trattamento di soli due mesi non può dare risultati clinici in una patologia cronica di questo tipo, ma l'esperimento suggerisce che il motivo per cui la terapia corrente non è in grado di arrestare la progressione della malattia risiede probabilmente nella sua scarsa capacità di contrastare lo stress ossidativo, capacità che invece possiede il tocotrienolo. Stiamo per iniziare un trial clinico su scala più ampia, sui cui risultati riponiamo molta fiducia: ma da questo studio viene anche il messaggio che la "ricerca di base", in questo caso la ricerca sugli effetti biologici dello stress ossidativo, può fungere da traino alla ricerca farmacologica e clinica.

Per approfondire le conoscenze sull'Atassia di Friedreich si consiglia la lettura dell'ottima rassegna: Santos et al., Antioxidant and Redox Signaling, 13:652 (2010)

8. Dott. P. A. Ruffini - Dompè Farmaceutici Milano
Direttore dello sviluppo della Dompè Spa

NGF NELLA TERAPIA DI PATOLOGIE OFTALMOLOGICHE

La potenzialità terapeutica di NGF nelle patologie oftalmologiche dipende dall'attività di questa molecola sulle terminazioni nervose del nervo trigemino e del nervo ottico, sulle cellule nervose della retina, sulle cellule epiteliali della cornea e della congiuntiva e sulla ghiandola lacrimale. Infatti, i recettori di NGF sono espressi in tutti questi tessuti. Numerosi modelli sperimentali hanno confermato il ruolo di NGF nel mantenere il corretto funzionamento della superficie anteriore e della camera posteriore dell'occhio, e la sua attività terapeutica in situazioni di patologia sperimentale.
Nei pazienti finora è stato utilizzato NGF murino sotto forma di gocce oculari. 55 pazienti con cheratite neurotrofica, una grave patologia della cornea, hanno fatto registrare una risoluzione completa della patologia dopo che tutti i trattamenti precedenti avevano fallito (1,2). In 3 pazienti con glaucoma avanzato e documentata diminuzione della funzione visiva si è verificato un miglioramento di tutti i parametri visivi, suggerendo la possibilità di un recupero di funzione visiva perduta grazie a NGF (3). Anche in 5 pazienti con glioma del nervo ottico si è assistito a un miglioramento della funzione visiva (4). Non sono mai stati riportati effetti indesiderati rilevanti durante il trattamento.
La disponibilità di NGF ricombinante umano consentirà di confermare la validità dell'approccio terapeutico e di fornire un trattamento efficace e sicuro a diverse patologie oftalmologiche tuttora prive di cura.

(1) Lambiase A, et al. New Engl J Med 1998;338:1174-80
(2) Bonini S, et al. Ophthalmology 2000;107:1347-51.
(3) Lambiase A, et al. PNAS 2009; 106:13469-74.
(4) Falsini B, et al. Neurorehabil Neural Repair 2011; 25:5

9. Dott. Aurelia Santoro

La Dott.ssa Santoro si è laureata in Biotecnologie presso l'Università di Bologna, ha conseguito nel 2006 il dottorato di ricerca in Biopatologia Molecolare presso l'Università della Calabria e, da oltre 10 anni si occupa di biologia molecolare dell'invecchiamento nel laboratorio del Prof. Claudio Franceschi. E' autrice di oltre 20 pubblicazioni scientifiche ed ha partecipato come relatrice a numerosi congressi nazionali ed internazionali. Oggi ci presenterà alcuni tra gli studi più importanti del gruppo di ricerca di cui fa parte sui centenari ed il loro stato cognitivo.
      Dipartimento di Patologia Sperimentale, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna

CENTENARI, STATO COGNITIVO E MALATTIA DI ALZHEIMER

L'invecchiamento umano è un processo dinamico che comporta il costante adattamento del corpo, lungo tutto il corso della vita, all'esposizione a danni interni ed esterni. Pertanto, il fenotipo dell'invecchiamento negli esseri umani è molto eterogeneo e può essere descritto come un mosaico complesso risultante dall'interazione di diverse variabili ambientali, stocastiche e genetiche-epigenetiche. Una caratteristica tipica del processo di invecchiamento è lo sviluppo di uno stato infiammatorio cronico, di basso grado, denominato inflammageing (1), questa condizione è critica nell'insorgenza delle maggiori patologie legate all'invecchiamento come l'aterosclerosi, il diabete di tipo 2, e la neurodegenerazione.
I soggetti che raggiungono i limiti estremi della vita come i nonagenari, i centenari e le loro famiglie, costituiscono un modello straordinario per lo studio della longevità umana e l'invecchiamento in salute, e per individuare le componenti biologiche di questo fenomeno (2,3). La longevità non sembra essere distribuita in modo uniforme dal punto di vista geografico (4,5) e sembra essere concentrata in famiglie arricchite di numerosi membri longevi nelle diverse generazioni. Nell'ambito di due importanti progetti coordinati dal Prof. Claudio Franceschi, il progetto italiano PRIN-06 ed il progetto europeo GEHA (Genetics of Healthy Ageing), dal 2004 al 2008 sono stati reclutati 178 centenari, 253 figli di centenari e 99 controlli correlati per età ai figli dei centenari ma figli di genitori non longevi in Italia e 2535 famiglie, comprendenti 5319 fratelli ultranovantenni, e 2548 controlli più giovani di età compresa tra 50-75 anni in undici paesi europei. Entrambi questi studi rappresentano una fonte unica per l'individuazione di varianti genetiche, sia nucleari sia mitocondriali, coinvolte nell'invecchiamento umano. I dati raccolti in questi studi dimostrano che la maggioranza degli ultranovantenni e dei centenari ha un buono stato cognitivo (valutato tramite un punteggio al Mini Mental State Examination test ?18) e, che l'allele ?4 del gene APOE, unica variante genetica associata con la forma sporadica della malattia di Alzheimer (MA) è un fattore di rischio per la longevità (p<0.000). La MA è la forma più comune di demenza tra gli anziani di cui ancora non si conoscono le cause. Tra le varie ipotesi, è stato proposto che una disfunzione dell'attività mitocondriale possa contribuire, insieme con altri fattori, allo sviluppo di tale patologia. Dato il fondamentale contributo del genoma mitocondriale (mtDNA) al funzionamento dei mitocondri, il nostro gruppo di ricerca ha studiato il ruolo delle varianti ereditarie del mtDNA e la MA. I risultati ottenuti dimostrano che il sotto-aplogruppo H5 è un fattore di rischio per la MA (OR = 1,85, 95% CI :1.04-3 .23), in particolare per le femmine (OR = 2.19, 95% CI :1.06-4 0,51) (6).

Bibliografia:
1.Franceschi et al., 2000. Ann N Y Acad Sci. 908:244-54
2.Franceschi and Bonafè, 2003. Biochem Soc Trans. 31(2):457-61
3.Franceschi et al., 2005, Mech Ageing Dev. 126(2):351-61
4.Poulain et al., 2004, Exp Gerontol. 39(9):1423-9
5.Willcox et al., 2006, J Gerontol A Biol Sci Med Sci. 61(4):345-54
6.Santoro et al., 2010, Plos One, 5(8): e12037

 

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